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La lettura è come la vita: un viaggio verso l’ ignoto, con la poesia del piacere e dell’ orrore.
Osvaldo Soriano
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Vincenzo LatronicoLa chiave di Berlino«Nessun'altra città è cosí piena di vuoto». Al volgere del millennio i grandi vuoti di Berlino, le cicatrici lasciate dal ventesimo secolo sul tessuto della città, si riempiono: dei sogni di una generazione che da tutta Europa ne fa il luogo di una promessa; del desiderio di chi vi cerca la trasgressione e l'estasi dei rave e dei sex party; delle nostalgie degli expat di tutto il mondo, fra cui moltissimi italiani, che a Berlino hanno cercato una nuova vita, fortuna o oblio. Scrivendo di Berlino, Vincenzo Latronico scrive il romanzo di formazione di una generazione.
«Sono arrivato a Berlino nel 2009. Ci vivo ancora. Me ne sono andato, sono tornato. Nel corso del tempo ho avuto vari motivi per restare: piú o meno validi, piú o meno vulnerabili ai negoziati con la durezza dell’inverno e la nostalgia». Vincenzo Latronico si trasferisce a Berlino poco piú che ventenne per una ragione che non è chiara nemmeno a lui. Quel che è certo è che, almeno all’inizio, è troppo forte il richiamo della città: piena di vuoti in cui far crescere la propria vocazione e di ombre in cui nascondersi, Berlino è la città in cui essere giovani nei primi vent’anni del ventunesimo secolo. Raccontandone le complessità – la memoria storica ancora ustionante, il mercato immobiliare sempre piú votato alla speculazione, la vita notturna tra emancipazione e consumismo, la gentrificazione denunciata dagli stessi che se ne fanno agenti – Latronico scrive un vero e proprio romanzo di formazione, personale e generazionale allo stesso tempo. Una storia europea di emozionante lucidità. «La chiave di Berlino è il racconto di una città e di chi l’ha attraversata negli ultimi venti anni. Latronico fa i conti con la falsa coscienza collettiva e individuale scrivendo un libro politico, profondo e commovente su ciò che è irrimediabilmente perduto, su ciò che resta, ma soprattutto sulla possibilità di un’utopia che non assomiglia né a un rimpianto, né a un’idealizzazione».
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