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Mo Yan

Mo Yan premio Nobel per la letteratura 2012

Il suo vero nome è Guan Moye, nato in una famiglia di contadini a Gaomi, nella provincia dello Shandong, lascia la scuola a dodici anni. Prima lavora con i genitori, aiutandoli con il bestiame, poi in fabbrica. È solo a metà degli anni Settanta, quando già ventenne entra nell’esercito, che comincia a scrivere e interessarsi alla letteratura. Con il nome di Mo Yan, che vuol dire «non parlare». «Il mio pseudonimo, effettivamente, oggi suona quasi ironico. In effetti non volevo parlare, ma non ho mai detto che non volevo scrivere... - ha detto in una conversazione con Maria Rita Masci pubblicata da Lo Straniero. - Quando ero piccolo c’era la Rivoluzione culturale, se uno parlava alla leggera rischiava di mettere in guai seri la propria famiglia, per questo i miei genitori mi esortavano a tenere la bocca chiusa, a non parlare troppo. I bambini hanno strani meccanismi e più i miei mi dicevano di stare zitto più mi sembrava di avere cose da dire. Gli ho creato un sacco di problemi per il fatto che non riuscivo a tenere la bocca chiusa. Così quando ho cominciato a scrivere l’ho usato come pseudonimo».
Negli anni di servizio militare si laurea in letteratura all’Istituto Artistico dell’Esercito di Liberazione Popolare e prosegue gli studi all’Università Normale di Pechino. Nel 1997, abbandonata la carriera militare, vince il China's Annual Writer's Award, il più importante premio letterario cinese: alle spalle ha già molti romanzi, tra cui il celebre Sorgo Rosso, pubblicato nel 1987 e Grande seno, fianchi larghi.
Parallelamente alla scrittura di romanzi e racconti, lavora come sceneggiatore, adattando il suo Sorgo Rosso per la regia di Zhang Yimou (il film è Orso d’Oro al Festival del Cinema di Berlino) e firmando, tra gli altri, lo script di Addio mia concubina.
Nel 2005 vince il prestigioso Premio Nonino.

«Mo Yan è uno degli scrittori più forti, creativi e travolgenti della nostra epoca, - ha scritto Claudio Magris. – Il suo linguaggio nasce insieme al mondo che racconta: è reinventato come quello dei grandi autori sperimentali e tuttavia è classicamente comprensibile, sorgivo e originario come è sempre originaria ogni esperienza fondante dell’individuo, che avviene qui e ora ma anche sempre. Vengono in mente altri due moderni creatori epici: William Faulkner e Gabriel García Márquez».

E il nome di Faulkner non compare certo a caso. Fu proprio dopo aver letto L’urlo e il furore - ha raccontato Mo Yan - e aver scoperto la contea immaginaria di Yoknapatawpha, che decise di reinventare la Gaomi della sua infanzia: «Dopo aver letto Faulkner ho capito che la mia stessa vita, la mia esperienza, potevano trasformarsi in storie. Le persone che avevo conosciuto, i luoghi familiari… Potevo trasformare tutto in letteratura». E in un villaggio immaginario della regione di Shandong, un posto che somiglia alla vera Gaomi ma che la vera Gaomi non è (proprio come la contea di Yoknapatawpha non è quella di Lafayette, e Jefferson non è Oxford), Mo Yan ha ambientato quasi tutti i suoi racconti e i suoi romanzi, diventando uno tra gli scrittori più prolifici e acclamati del suo Paese.

Pochi hanno saputo raccontare come lui l’anima della civiltà e della cultura cinesi, cogliendone le sue infinite sfaccettature e le sorprendenti evoluzioni. La storia travagliata della Cina dalla società feudale degli anni Trenta fino all’odierno capitalismo di Stato è lo sfondo su cui si articola la saga familiare di Grande seno, fianchi larghi(censurato in patria per l’esplicita crudezza delle testimonianze che riporta e per i toni corrosivi e grotteschi), mentre la storia del bandito Yu Zhan’ao e della sua famiglia in Sorgo Rosso si snoda lungo la prima metà del Novecento, come quella del ribelle Sun Bing (Il supplizio del legno di sandalo). Ma anche quando guarda al passato, Mo Yan lascia filtrare l’immagine della Cina contemporanea, sospesa tra conservazione e riforme, e poi spinge il suo sguardo ancora oltre, fino a quel sempre di cui diceva Magris (e che vuol dire anche ovunque), e lo fa attraverso metafore semplici e insieme potentissime, e grazie alla capacità di infondere in ogni sua storia un tocco di poesia, una leggerezza magica che illumina le sue pagine e le storie dei suoi personaggi.

Esempi perfetti del suo realismo magico (o, come lo hanno definito i giudici del Nobel, realismo allucinatorio) sono la raccolta di racconti L'uomo che allevava i gatti (definita da Magris «un autentico capolavoro») in cui sono i bambini a impersonare il confine tra fragilità assoluta e capacità di salvare il mondo con i loro miracoli; e Le sei reincarnazioni di Ximen Nao, dove un proprietario terriero trascorre cinquant'anni sulla terra reincarnandosi di volta in volta in asino, toro, maiale, cane, scimmia e di nuovo in essere umano.

Nel 2013 Einaudi darà alle stampe Le rane, che è costato all’autore cinese dieci anni di lavoro e molte polemiche. Perché con questo nuovo testo a metà tra romanzo epistolare e piéce drammatica, Mo Yan tocca il tema delicatissimo delle politiche demografiche in Cina. «La pianificazione familiare è una condizione di base che ha a che fare con l’elemento più conservatore della cultura tradizionale », ha detto Mo Yan in un’intervista riportata dal Corriere della Sera. «Perché tocca i punti più dolorosi e le parti più delicate dell’anima di centinaia di milioni di cinesi».
Le rane è uno splendido, conturbante ritratto di una donna la cui vita attraversa e definisce la storia della Cina di oggi. Le sue scelte, le sue decisioni sono complesse, controverse, spesso discutibili: perché complesso e sofferto è il giudizio di Mo Yan sul suo Paese.

Di Mo Yan sono apparsi in Italia: L’uomo che allevava i gatti e altri racconti (1997), Grande seno, fianchi larghi (2002), Sorgo rosso (2005), Il supplizio del legno di sandalo (2005) e Le sei reincarnazioni di Ximen Nao (2009), tutti pubblicati da Einaudi, e Cambiamenti, (Nottetempo, 2011).

 

dello stesso autore nel catalogo Einaudi

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